
Cosa c'entra Luca Maroni con "I Dolomitici" ?
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Nulla,se non fosse per un collegamento fantasioso che prende le mosse dalla mia storia e per la mia voglia di fare outing enologico.
Ho acquistato un vino molto particolare, unico:il Ciso 2010 dei Dolomitici. Ciso è il diminutivo di Narciso,un vecchio contadino trentino. La storia è quella di una vigna e di un vitigno molto speciali:piante centenarie di lambrusco a foglia frastagliata su piede franco. Il vecchio Ciso stava per abbandonare l’ultima scheggia di un mondo e di una viticoltura tradizionale,eroica,antica e ormai travolta dai cambiamenti di un mondo in continuo divenire. A quel punto un consesso di valenti nonché sensibili produttori (I Dolomitici) si è prodigato per il salvataggio di un cru assolutamente irripetibile. Fra questi,due nomi che rimandano agli esordi del mio percorso eno-sensoriale: Cesconi e Maso Furli. La memoria organolettica mi riporta a tempi ormai mitici : mi sembra di riprovare le emozioni recate da chardonnay e traminer aromatici profumatissimi,opulenti,dalla consistenza oleosa e dall’efferato morso alcolico. Che goduria! Altri tempi,altri stili,il medesimo godimento. All’epoca il cantore dei nettari di questi due eccellenti produttori era Luca Maroni. I suoi Annuari,sul finire degli anni novanta,erano le guide vinicole più belle d’Italia. Ogni cosa lì scritta trovava riscontri all’assaggio:i vini dichiarati eccellenti erano eccellenti davvero! E i vini di Cesconi e Maso Furli erano fra le chicche enologiche misconosciute a cui si tributava la giusta risonanza fra quelle pagine così ispirate. Adesso Luca Maroni in virtù delle sue teorie è uno dei degustatori professionisti più acclamati,controversi e denigrati d’Enotria. Eppure è bravissimo. Forse proprio perché è bravissimo . Tanti nemici,tanto onore. Urgono alcune riflessioni.
Il vezzo di innalzare steccati ideologici da parte di chi suppone di essere competente in fatto di vini è uno dei fenomeni più diffusi in seno alla critica enologica. Appena si perviene ad una qualche quadratura delle istanze intellettuali sostenute intorno al bere di qualità,si ritiene di poter pontificare e dettare tempi e modi di avvicinamento alla suprema verità enologica conseguita. Ma perché a nessuno viene in mente che la qualità possa essere ubiquitaria,che il verbo enoico dell’eccellenza possa incarnarsi ovunque si mettano in gioco studio e passione e che le diversità possano risolversi in un arricchimento del giardino fiorito delle essenze e dei sapori di ulteriori profumi e aromi celestiali? Che il gusto ha i suoi tempi,si trasforma e ne va accettato il cambiamento e tollerate le sortite ondivaghe pena la perdita di ogni piacevolezza marginale? Che la strada e la continua evoluzione sono le uniche alternative alla fissità e alla tomba?L’oggettivo è arduo da sostenere specie se ci sono punti di vista diversi che si nutrono di cultura e generano percorsi sensoriali alternativi. Certo,ci sono casi di manifesta ignoranza e inadeguatezza . Con simili produttori,critici,bevitori,nettari meglio non avere nulla a che fare. Ma quando le papille gustative sentenziano l’avvento dell’estasi dovrebbero cessare i rumori di battaglia.
Quando ho cominciato a fare sul serio con i vini emozionali ero un degustatore dalla personalità ben definita. Decisamente nel solco della tradizione,guardavo alle griffe enologiche più importanti e famose. A volte mi capitava di bere Gaja e Valentini,Yquem e Krug. Sovente sognavo Margaux e Romanèe Conti,Guigal e Vega Sicilia. Poi,la prima contaminazione. L’idea del vino- frutto ha progressivamente conquistato spazio nella mia mente. Era scoccata l’ora della fase “maroniana“. Come una massaia aggiunge progressivamente manciate di farina all’impasto che cresce nelle sue mani,amalgamandolo prima di reiterare il gesto,così ho accolto le nuove sollecitazioni allineando il gusto a quel che percepivo come novità. La saga dei vinoni iperstrutturati e muscolari l’ho attraversata con lo stupore di un neofita e senza snobismi.
Quindi è giunto il momento di approdare a quei vini che si suole definire “naturali“. Avevo accumulato pessime esperienze in quella direzione. Ma i pregiudizi nella mia poetica sono paratìe mobili che lasciano sempre passare il corso del fiume e la mia curiosità ha fatto il resto. Il mio gusto ha vissuto una nuova pacifica riparametrazione. Adesso posso dire che tanti di quei vini cosiddetti naturali sono una golosità. Ma non per questo ho cessato di amare tutti i vini della mia vita. Dai classici ai moderni,dagli estremi ai convenzionali,dai vecchi ai nuovi,dagli esili agli iperstrutturati,dagli orange ai barricati,tutti i vini,ma proprio tutti,possono regalare scampoli di felicità. Per avere accesso a tutti i piaceri organolettici del mondo basta non avere chiusure e non mettere le briglie ai sensi e farli scatenare come liberi puledri di baudelairiana memoria. Gli integralisti e i crociati di ogni credo enologico non mi avranno mai fra le loro fila. Nulla si è creato,nulla è andato distrutto.
Com’è andata col “Ciso“? Ebbene sì,mi è piaciuto. E anche molto. Sono attratto dalla sua configurazione organolettica esile e snella,dalla spiccata e pur pacata acidità,dalla sapidità,dall’estrema sorbevolezza. E da quel senso di “naturalità“ che si avverte subliminalmente e s’impone sensorialmente ad ogni sorso. C’è qualcosa di ancestrale che si agita in questo vino e la memoria involontaria,suscitata improvvisamente da un profumo,un sapore...chissà,mi rituffa immediatamente nel passato e mi fa recuperare stati d’animo che credevo perduti per sempre e che solo attraverso il ricordo vengono rivissuti in tutta la loro intensità. Mi appare,come una magìa, l’immagine mentale di quando ragazzino avevo per le prime volte accesso ad un “bicchiere“ con mio padre e mio nonno. Erano i vini rossi dei contadini dell’agro di Ascoli Satriano,mio paese natìo. Questo nettare prodotto con uve di un vitigno ormai dimenticato,il lambrusco a foglia frastagliata,somiglia molto ai vini della mia infanzia. Grazie Narciso,grazie Dolomitici per il dolce dono della rimembranza che la vostra ambrosia mi ha regalato! Oggi preferisco questi vini,senza rinnegare la mia storia. Vini paradossalmente “futuristi“ (per quanto si riferiscano ad un’agricoltura ed una tecnica enologica d’antan che nel gioco dei corsi e ricorsi storici è diventata avanguardia)che impongono dinamismo,anche intellettuale,e l’umiltà di riconoscere i propri limiti ma di coltivare tutti i sogni enoici del mondo.
ROSARIO TISO
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